L'opportunità che il digitale sta offrendo alle imprese è strategica: molte lo colgono ma c'è ancora molto da fare
Come emerso dagli ultimi dati del Rapporto Assinform 2015, l’Italia sconta un gap digitale che la vede in coda ai Paesi più avanzati. Colmarlo è una sfida culturale che riguarda tutti: lo Stato, che solo in un contesto digitale può operare con efficienza, le imprese, che devono aumentare competitività e cittadini, ai quali il digitale può garantire la trasparenza e velocità. Questi sono gli elementi sui quali si fonda una democrazia avanzata; la conoscenza consapevole delle opportunità di vita e di lavoro, ma anche dei rischi e dei problemi di sicurezza e di privacy devono dunque diventare patrimonio comune.
Tutti, quindi, sono coinvolti in azioni e investimenti non più procrastinabili. Lo Stato deve assicurare ovunque la connettività (banda larga, wi-fi e infrastrutture) superando quel “digital divide” che è una debolezza storica dell’Italia e che è un freno allo sviluppo. Inoltre occorrono investimenti nella Pubblica Amministrazione, superando l’impostazione secondo cui basta “digitalizzarla”, ma operando anzi in essa un profondo cambiamento organizzativo. Le imprese devono innovare i modelli produttivi e lavorativi e devono investire sui servizi in cloud, una delle tecnologie che agevolano l’accesso alle informazioni e ne ampliano i termini di fruibilità. Grazie alle tecnologie per lo smart working le aziende italiane guadagnerebbero in dinamismo e crescita.
Per quanto riguarda i cittadini, devo dire che sono già più avanti delle aziende e della PA nel recepire le opportunità del digitale. Soprattutto i più giovani trovano già naturale utilizzare le tecnologie digitali e sono, quindi, i veri promotori del cambiamento, che dev’essere recepito anche dalle imprese e dallo Stato. Questi tre attori, insieme, devono puntare su un life-long learning perché il digitale possa essere un vero fattore di civiltà. Mi si permetta un’aggiunta che sento molto “mia”, come presidente di una software house. A mio parere in Italia dovrebbe cambiare anche l’atteggiamento culturale nei confronti del software. Questo viene in genere considerato un mero strumento tecnico, ma in realtà non è solo questo: è intelligenza, capacità di analisi e di sintesi, competenza umanistica e tecnica, un prodotto di ingegno collettivo in modo non diverso da un progetto architettonico. Il software è l’anima del mondo contemporaneo e l’Italia non può permettersi di rimanere indietro su questo terreno.